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In attesa del film su padre Gabriele Amorth, interpretato da Russel Crowe, dalle memorie del grande esorcista emerge uno dei casi più gravi di possessione diabolica
Il 13 aprile 2023 uscirà nelle sale cinematografiche il film «L’esorcista del Papa» con protagonista l’attore Russel Crowe che interpreterà padre Gabriele Amorth, originario di Modena, che fu esorcista della Diocesi di Roma dal 1986 per mandato del cardinale Ugo Poletti. La pellicola è diretta dal regista australiano Julius Avery e la trama, liberamente ispirata dai libri di memorie «Un esorcista racconta» e «Nuovi racconti di un esorcista» di padre Amorth, racconta la storia di padre Amorth che s’intreccia con quella di un giovane ragazzo posseduto. Compito del sacerdote sarà quello di cercare di curare la malcapitata vittima sottoponendola ad esorcismi e nel frattempo, indagando, finirà per scoprire una cospirazione secolare che il Vaticano ha cercato di celare. Tra i tanti libri scritti da padre Amorth ce n’è uno, dal titolo «L’ultimo esorcista» (Piemme editore), che scrisse assieme al vaticanista Paolo Rodari, nel quale è descritto uno degli esorcismi più cruenti e meglio documentati della storia moderna, quello avvenuto a Piacenza agli inizi del XX secolo. L’autore lo descrive come «L’esorcismo piacentino del 1920 in Santa Maria di Campagna, rappresenta ancora oggi il padre di tutti gli esorcismi per gli specialisti italiani. Quella volta a Piacenza il diavolo è tornato e ha fatto cose che non ho mai visto fare altre volte. È tornato per uccidere».
Nella primavera del 1920 nella Sala del Duca della basilica di Santa Maria di Campagna un frate, padre Pier Paolo Veronesi, cappellano del manicomio di Piacenza, si è trovato ad affrontare un potente spirito maligno che si era impadronito del corpo di una donna. Il frate era inizialmente convito che la donna fosse in preda ad allucinazioni dovute ad una patologia psichiatrica ma, dopo essersi confrontato con il dottor Lupi, medico e direttore del manicomio della città, si convinse che occorreva procedere con gli esorcismi. Per la Chiesa Cattolica, il ministero di esorcizzare le persone possedute dal demonio è affidato con speciale ed espressa licenza dell’Ordinario del luogo, di norma il vescovo diocesano. Tale permesso viene concesso solamente ai sacerdoti di provata pietà, scienza, prudenza e integrità di vita, specificatamente preparati a tale ufficio. Il presbitero, al quale il ministero di esorcista viene affidato in modo stabile o ad actum, compie questo servizio di carità con fiducia e umiltà, sotto la guida del Vescovo (Cod. Diritto Canonico, Canone 1172). A rafforzare i fatti, il numero di testimoni del tempo e la stenografia dei dialoghi tra l’ossessa e l’esorcista che è stata in gran parte trascritta nel libro «Intervista col diavolo», pubblicato nel 1931 (sulla scorta dei documenti originali conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Bologna), da «Edizioni Paoline», stampato in pochissime copie e – leggenda vuole – che su di esso incomba una maledizione: il diavolo avrebbe minacciato di vendicarsi su chi avrebbe osato divulgare i dialoghi stenografati durante le sedute dell’esorcismo. Padre Secondo Ballati, attuale rettore dell’Ordine dei frati minori del Convento di Santa Maria di Campagna, commenta «Non c’è dubbio che quella volta il diavolo in persona si sia manifestato, e nel modo più spaventoso che gli fosse possibile attuare».
Esorcismo Piacenza: parla il frate guardiano
Una sera di maggio del 1920 mentre un frate era intento a riordinare la sagrestia della basilica di Santa Maria di Campagna, una donna fece capolino per chiedere una benedizione, una richiesta che non aveva nulla d’insolito ma si palesava soltanto un lodevole spirito di pietà. Una volta ottenuta la benedizione, la signora cambiò espressione, che si fece preoccupata e spaventata e iniziò a confidare al frate certi episodi abbastanza tenebrosi. Il frate, padre Pier Paolo Veronesi, cappellano del manicomio di Piacenza, era abituato alle confidenze più singolari; inoltre, l’atteggiamento malinconico della signora lo convinse ad ascoltare. La donna disse al sacerdote che in certe ore del giorno una forza misteriosa s’impossessava del suo corpo e della sua anima, in quei frangenti era in grado di parlare lingue straniere a lei sconosciute, di preannunciare in poesia la propria morte e quella delle sue sorelle, che a volte coi denti mordeva e lacerava persino i mobili di casa, che di sera, come fosse un serpente, con terrore di tutta la sua famiglia e dei suoi figli, scivolava dentro le spalliere delle sedie, per poi ruggire o miagolare o ululare con crescendo spaventoso. Salti disumani che la portavano a fare balzi da una credenza a un tavolo e persino da una stanza all’altra, per poi cadere sfinita a terra sotto gli occhi terrorizzati del marito e della madre. Il dettagliato racconto fece rimanere interdetto padre Veronesi, che pur essendo per mestiere preparato a folli e maniaci, non si capacitava come potesse essere tutto frutto di fantasia e gli venne di pensare a un fenomeno d’isterismo. Il frate interrogò la signora per sapere se altri prima di lui avessero esaminato il caso. La signora disse di essere stata visitata da numerosi medici di Piacenza e che i fatti, che la vedevano coinvolta ormai da sette anni, non cessavano nonostante si fosse sottoposta a numerose cure e assumesse medicinali. Padre Veronesi le domandò come mai avesse deciso di rivolgersi a un ministro di Dio e la donna gli rispose che ora riponeva le sue ultime speranze in Cristo Signore e che solamente le benedizioni di un sacerdote la facevano sentire meglio. Padre Veronesi si convinse che i fatti dovevano essere approfonditi, pertanto domandò alla donna se già si fosse rivolta al sacerdote del paese. Lei gli rispose che temeva che quei preti la ritenessero pazza. Nei giorni seguenti la donna si ripresentò da padre Veronesi e prese a ululare come fosse un lupo, reclinò il capo e prese ad inveire contro qualcosa di invisibile in una lingua sconosciuta e con modi violenti. Nonostante padre Veronesi fosse spesso, e da tempo, impegnato al manicomio cittadino, dovette ammettere che mai aveva notato un caso simile a questo. Padre Veronesi decise quindi di presentare il caso al vescovo di Piacenza, monsignor Giovanni Maria Pellizzari, il quale, dopo essersi fatto raccontare il caso nei dettagli, e dopo un’attenta riflessione, disse: «Caro Padre, procedete con gli esorcismi». Il frate, colto di sorpresa, cercò di convincere il vescovo di procedere attraverso la nomina di un altro esorcista, ma il vescovo rimase della sua idea. Il frate uscì dall’episcopio in condizioni di spirito abbastanza depresse e con addosso una bella dose di paura per l’incombenza di dover parlare col demonio e di vederlo all’opera. Dopo aver ricevuto l’ordine del vescovo Pellizzari di procedere con il rito dell’esorcismo, padre Pier Paolo Veronesi invitò il dott. Lupi, direttore del manicomio cittadino, ad assistere alle sedute. Per scrupolo di esattezza oggettiva, e per placare la propria ansia, volle che agli esorcismi fossero presenti anche altre persone. In tal modo non avrebbe dovuto fronteggiare da solo le possibili furie della presunta ossessa. Infine, pregò un confratello, padre Giustino, che conosceva bene la stenografia, di voler fissare su carta lo svolgersi dei dialoghi.
Alle ore 14 del 21 maggio 1920 ebbe luogo il primo convegno per l’esorcismo. La donna giunse nel piazzale antistate alla chiesa di Santa Maria di Campagna accompagnata dal marito, dalla madre, da un amico di famiglia e da due ragazze. Fu accompagnata nella Sala del Duca, che si raggiuge percorrendo una rampa di gradini, e che è situata al primo piano del Santuario. È una stanza spaziosa con ampi finestroni. Al centro vi era un piccolo altare, sul quale poggiava la Croce di Cristo e due candele. Davanti all’altare furono sistemate due sedie, che avrebbero dovuto servire da genuflessorio all’esorcista e al suo assistente, per le preghiere preparatorie. Al centro della stanza, una sedia in vimini per la signora e, attorno, altre sedie per i testimoni. A destra dell’altare la poltrona del medico e a sinistra il banco dello stenografo. Accanto, un piccolo tavolo con la stola, la cotta, il rituale romano, l’aspersorio e il secchiello dell’acqua santa. La signora fu invitata a sedersi. Si iniziarono a recitare le preghiere. Quando si arrivò a pronunciare lo scongiuro, la signora, che fino a quel momento era rimasta tranquillamente seduta, alle prime parole, «Exorcizo te, immundissime spritus, omne phantasma, omnis legio…», unì le mani alla punta dei piedi, si librò in aria e prese a contorcersi sul pavimento come una serpe. Diresse il viso, trasformato da una smorfia orribile, verso il sacerdote e con maschia voce tonante disse: «Ma chi sei tu, che osi venire a combattere con me? Non sai che io sono Isabò, che ho le ali lunghe e i pugni robusti?» e scaricò all’indirizzo dei presenti un cumulo di ingiurie. L’esorcista non si fece intimidire e impose alla creatura di tacere: «Io, sacerdote di Cristo, impongo a te, chiunque tu sia, e te lo impongo per i misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Resurrezione di Gesù Cristo, per la Sua salita al Cielo, per la Sua venuta al giudizio universale, di star fermo, di non nuocere né a questa creatura di Dio né ai circostanti, né alle loro cose, e di ubbidire in tutto ciò che ti comando». Terminato lo scongiuro, il frate prese ad interrogare il demone. Gli chiese chi fosse, perché fosse lì, se era con altri. Ne uscì un quadro terribile. Otto demoni si erano impossessati di quel corpo il 23 aprile 1913 alle 5 di pomeriggio, a causa di una maledizione frutto di una stregoneria.
Un atto che fu compiuto in una casa della città, per mezzo di un salame e di un bicchiere di vino bianco fatti ingerire alla donna mentre veniva pronunciato il maleficio. Il sacerdote ordinò al demone di andarsene ma egli, con tono sarcastico rispose: «Hanno impiegato sette giorni per farmi entrare, e tu vuoi farmi partire da questo corpo con un solo misero esorcismo?». La donna balzò sul sacerdote e con morsi gli dilaniò la veste, egli si difese gettandole addosso l’acqua santa. La donna, ritirandosi come fosse rimasta ustionata, replicò: «Me ne andrò quando questo corpo rigetterà la palla di salame maledetta». Seguirono altre preghiere. La donna vomitò qualcosa. Durante questo primo esorcismo, e gli altri che seguirono, rigettò cose assunte durante il maleficio del 1913 e non i cibi ingeriti durante i pasti appena precedenti. L’esorcismo era in atto da ore, pertanto il sacerdote pose fine al rituale imponendo allo spirito maligno di non far del male ad alcuno. La donna giaceva priva di sensi sul pavimento. Prese pallidamente a risvegliarsi, non ricordando nulla di quanto fosse accaduto. Il secondo esorcismo ebbe luogo il 23 maggio successivo, sempre nella sala al piano superiore del Santuario e non nella basilica, a detta dei frati «Per non sconvolgere i fedeli che frequentavano la chiesa». Seguirono molti altri esorcismi, durante i quali il frate riuscì a scacciare quattro demoni (spesso terminati con la stola squarciata dai denti dell’idemoniata) e a scoprire il nome del mandante (un campagnolo che si era invaghito della donna e da questa respinto). Il sacerdote fu anche capace di far rivelare altri dettagli del maleficio come la chiara volontà da parte del mandante di uccidere la donna, rea di non aver ceduto alle sue lusinghe. I fatti qui riassunti devono essere immaginati come continuamente spezzati in lunghi e spossanti alterchi, in ricorrenti tentativi di tergiversazioni e di inganno nelle risposte del demonio, in frequenti preghiere del frate: questo dilungava il colloquio per ore e ore. In un’altra seduta il demone Isabò minacciò di sconvolgere le notti di padre Veronesi comparendogli vicino al letto per mostrargli il suo vero terrificante aspetto. Da allora e per tutta la sua vita, il frate avrebbe dormito con la luce accesa.
Qualche giorno prima dell’undicesimo esorcismo, l’amico di famiglia - che sempre era stato presente agli esorcismi precedenti - si presentò da padre Veronesi per confidare le sue paure e informarlo che non avrebbe più preso parte al rituale. Era agitato, «In questi sette anni ho avuto modo di osservare tante cose, e posso garantirle che tutto ciò che ha detto Isabò si è sempre avverato con certezza matematica. Egli ha detto che dovrò morire fra tre mesi, e che anche il vescovo sarebbe morto se avesse concesso questo permesso. Saremo entrambi vittime della sua vendetta». Il frate tentò di dissuaderlo facendogli notare che il vescovo godeva di ottima salute e che le parole del demone erano menzognere. La donna, nel frattempo, dopo una ventina di sedute di esorcismo, venne finalmente liberata dal demonio. Ma qualche mese dopo, per Piacenza si sparse improvvisamente la notizia che il vescovo era gravemente malato. E, in effetti, la morte di monsignor Pellizzari sopraggiunse inaspettata il 18 settembre 1920 e due mesi più tardi, in un freddo pomeriggio di novembre, morì anche quell’uomo. Citando Sant’Agostino, uno dei maggiori pensatori ecclesiastici, «i demoni non possono vedere direttamente il futuro ma usano soltanto la loro esperienza, la quale si basa di certi indizi a noi sconosciuti e permette loro di vedere le cose future assai meglio degli uomini. Il demonio ha potere molto più limitato – benché assai più sottile e incontrollabile – di quanto la mentalità popolare non sia portata a credere. Non bisogna farsi ingannare. Le morti preannunciate non sono opera del demonio, ma è a lui conveniente far credere che lo siano, per spaventare e incutere timore reverenziale».
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